Una lunga storia di tanti anni fa: artisti e intellettuali trentini ai tempi dell’irredentismo… (è la mia tesi di laurea, anno 2006)

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Un pensiero su “Una lunga storia di tanti anni fa: artisti e intellettuali trentini ai tempi dell’irredentismo… (è la mia tesi di laurea, anno 2006)

  1. Luisa e Marco Anzoletti, Giulia Turco, Raffaello Lazzari: La cultura trentina fra Otto e Novecento nella vita e nelle opere di quattro artisti di Marcello Defant 1. PREMESSA Dove si parla della importanza della contestualizzazione nella indagine storiografica per la corretta comprensione dei fenomeni in esame e si ipotizzano le differenze intervenute nella Weltanschauung dall’epoca a cavallo fra Otto e Novecento e oggi. Gli obiettivi che questo lavoro si è prefisso sono senza dubbio ambiziosi. Voler leggere attraverso le vicende di quattro personaggi, come attraverso uno specchio, gli avvenimenti ed i fermenti culturali che hanno attraversato la società del loro tempo non è impresa da poco. Alla difficoltà intrinseca di una lettura che si affaccia inevitabilmente su orizzonti amplissimi in ogni direzione ogni qual volta si apra una riflessione sul contesto storico, geo-politico, sociale, culturale in cui i protagonisti della nostra storia hanno vissuto, si aggiunge la scarsità e lacunosità dei documenti in nostro possesso atti a delineare in maniera precisa caratteri, vicende, relazioni, percorsi. Perché dunque volersi impegnare in un’operazione di ricerca che contiene già nelle sue stesse premesse una minacciosa preconizzazione delle difficoltà che ne cospargeranno il cammino e, vieppiù, su cui grava la certezza di un risultato finale ben lontano dalla completezza e dal raggiungimento di un traguardo preciso e definito? Questa domanda di non poco conto non si è presentata subito in tutta la sua pressante gravità, perlomeno nell’aspetto legato alla difficoltà di reperire e consultare un bacino documentale sufficientemente vasto; essa è venuta via via maturando in sede di delineazione e di affinamento degli obiettivi inizialmente individuati. Fortunatamente si tratta – come è nel caso di ogni buona domanda che investa le fondamenta su cui si basi la costruzione intrinseca di un progetto operativo – di una di quelle che, nel momento in cui trovano una risposta, permettono di imbrigliare e governare tutto il lavoro dandogli solidità di struttura e chiarezza di finalità e di intenti. La prima considerazione che viene fatto di opporre ad un dubbio di tale portata è quasi edonistica, e nasce dal rovesciamento dei termini della questione: perché privarsi del piacere eccitante di addentrarsi in un campo tutto sommato quasi inesplorato, ponendosi in condizione di osservatori di una realtà del cui specifico forse si sa poco, ma di cui è comunque sempre presente una lunga serie di punti di riferimento sicuri e validi da cui basta tutto sommato sottolineare di volta in volta coincidenze o discordanze? Sappiamo bene quanto peso abbiano avuto nella società borghese e piccolo-nobiliare di fine secolo XIX istanze quali la conquista di una identità di classe, nazionale ed ideologica e la ridefinizione di tanti canoni culturali, etici e scientifici ormai sentiti inadatti come un vestito stretto. Conosciamo, operando già una prima approssimazione geografica alla nostra area di indagine, l’importanza che hanno rivestito movimenti e correnti e fenomeni come la filosofia modernista, l’irredentismo, il sorgere del movimento cooperativo cattolico. Abbiamo a nostra disposizione studi approfonditi su personaggi del mondo della cultura e della storia sociale che hanno vissuto nell’area trentina o che con essa hanno intessuto rapporti più o meno approfonditi. Ecco dunque, abbiamo già così in mano una serie di validi elementi di aiuto, di sicure chiavi di lettura, attraverso cui appare tutto sommato molto più facile ricostruire e tratteggiare profili di soggetti che con tutti questi elementi hanno avuto stretta relazione, anche laddove le informazioni specifiche in nostro possesso riguardanti le loro vicende personali diventino a tratti lacunose od imprecise. Disponiamo, insomma, di un ben delineato contesto in cui possiamo agevolmente inserire il quartetto di artisti (letterati, poeti, musicisti; uomini e donne di pensiero e d’azione) che vogliamo fare oggetto del nostro lavoro di ricerca. Per ritornare all’immagine dello specchio su cui abbiamo aperto, se è vero che uno specchio riflette attraverso di sè le figure dell’ambiente ad esso circostante, è anche vero che la luce necessaria per fare ciò debba giungere dall’ambiente stesso: uno specchio non illumina nulla. Una seconda considerazione è di ordine ben più pratico: su ognuno di questi rappresentanti della società e della cultura trentina sono stati condotti studi o spese parole, con maggiori o minori pretese di approfondimento e di completezza. Ma affinché quanto è stato finora scritto su di loro possa assumere ulteriore significato ed aprire la strada a sviluppi che vadano al di là della contingenza della celebrazione effimera cui spesso si sono ridotti, è necessario che vengano tesi dei fili, stabilite delle rispondenze, costruite od individuate delle reti di relazioni. L’ammessa incompletezza di questo lavoro vorrà dunque appoggiarsi sulla pur scarsa letteratura che già esiste, rapportandone le informazioni e le considerazioni espresse e contenute, per arrivare a servire da stimolo anche ad altre future ricerche conoscitive che ne vogliano tenere conto. Ma anche per arrivare ad un certo segno a riempire gradualmente e rendere omogenee le istanze contenute in tutti i citati lavori che procedono per ora ancora per vie parallele e troppo poco interagiscono fra di loro. Con l’auspicio che in quel momento si riesca ad avere finalmente un quadro sufficientemente completo di quanto veramente è stato in un mondo immerso contemporaneamente in così tante realtà diverse, fra cultura italiana e tedesca, fra modernità e reazione, fra potentato cattolico e istanze di rinnovamento. Ci conforta, infine, nel nostro cammino di ricerca un pensiero di carattere ben più generale ma di portata filosoficamente rilevante: quale lavoro di studio ha mai potuto vantare caratteristiche di completezza tali per cui, al di là di inevitabili aperture e suggestioni su campi ad esso paralleli e spunti a nuove ricerche su argomenti da esso toccati, non sia rimasto aperto ad approfondimenti ulteriori della stessa tematica centrale su cui è nato e si è sviluppato? Sappiamo dunque dell’intimo legame che per tutta la vita intercorse tra la poetessa Luisa ed il musicista Marco Anzoletti, la scrittrice Giulia Turco Turcati ed il violinista e compositore Raffaello Lazzari in maniera costante: è stata questa attestata forma di corrispondenza, con il pregio aggiuntivo di coinvolgere due coppie eterogenee (sorella – fratello / moglie – marito) ad indirizzare il nostro interesse verso di loro. Ci sono parsi essere i rappresentanti ideali che potessero aprire ad una panoramica su uno specifico settore della società dell’epoca, delimitando quindi ad esso un campo di osservazione che sarebbe altrimenti stato troppo vasto per permettere di darne un’immagine esaustiva, ma permettendoci di estenderlo tuttavia, nell’ambito di questo settore stesso su un universo relazionale sufficientemente esteso da apparire significativo. Vedremo inoltre, nel corso della nostra indagine sulle vicende personali e sul percorso artistico dei quattro personaggi, come la loro collocazione nella geografia sociale del trentino sia in un certo modo centrale: nel caso della coppia Turco – Lazzari in virtù dell’abitudine invalsa di adibire la villa di famiglia a Sopramonte, località di mezza montagna alle porte di Trento nota anche per i salubri bagni di fieno, a luogo di ritrovo, salotto letterario, cenacolo di artisti e uomini di cultura e di scienza; nella fattispecie dei due Anzoletti invece per l’ininterrotto rapporto che essi vengono instaurando fra Trento e Milano, dovuto soprattutto all’impegno di Marco presso il prestigioso Conservatorio della città lombarda. Rapporto ininterrotto che risulta un po’ controcorrente rispetto a quella che sembra essere costume di tanti artisti coevi segnato da un ritorno alla terra d’origine – che comporta anche inevitabilmente un ripiegamento dell’attività artistica coincidente con un ridimensionamento delle ambizioni – dopo un impeto “giovanile” di conquista di terre lontane. Anche nel caso infatti di personaggi di maggiore rilievo storico e peso artistico la lunga assenza dalla regione tridentina, quando presente, è più frutto di una situazione forzosa che non di una libera scelta professionale. Ci sentiamo quindi di affermare che la scelta di questi personaggi come chiavi di lettura privilegiate di un quadro ben più vasto è sufficientemente interconnessa e nel contempo eterogenea da permetterci di presumere che la prospettiva che ci possono restituire possa vantare caratteristiche, se non di completezza, quantomeno di una certa ampiezza rappresentativa. Ovviamente ci sono altri nomi, quali il già citato Zandonai in campo musicale, il filosofo Rosmini, Giovanni Prati, lo stesso Cesare Battisti, che più o meno nello stesso squarcio di secolo si inseriscono in maniera ben più significativa nelle nostre vicende nazionali; tuttavia, al di là del fatto che ben diversa è stata la rilevanza che già l’approfondimento della loro vita e del loro operato ha assunto negli studi fin qui condotti sulla storia d’Italia di quel periodo, pochi fra questi hanno avuto una vita di relazioni a livello locale così intensa, così regolare e così facilmente ricostruibile come i nostri soggetti. Soggetti la cui importanza si identifica così con quella di un ruolo che va al di là delle loro storie individuali, fino a divenire piuttosto esemplare di una maniera di vivere associativo ed a proporsi quasi come un barometro delle molteplici correnti di pensiero, un veicolo di circolazione e decantazione continua delle idee e degli stimoli che hanno attraversato tutta quell’epoca. Il senso dunque della scelta di questi personaggi deriva anche dall’osservazione che, forse proprio in virtù della loro personalità, assai sensibile ed incline all’arte così come all’impegno sociale e politico, ma tuttavia non tanto prepotente da imporre un nuovo corso alla storia, in essi confluiscono e vengono messe a confronto idee e fermenti in maniera più onnivora e facilmente contestualizzabile di quanto non accada nel caso di uomini e donne dalla più esuberante personalità e carica innovativa. Proprio con riguardo al sempre difficile problema della contestualizzazione è però necessario spendere alcune parole al fine di cercare di definire un metodo che possa accompagnare il presente lavoro di ricerca. Come sempre, infatti, nel caso in cui si prendano in esame fenomeni che abbiano interessato dal vivo la nostra società in tempi precedenti il nostro, una delle questioni che si pongono in maniera più pressante e che risultano di difficile soluzione è proprio quella concernente la contestualizzazione dei fenomeni stessi. Manifestazioni ed usi che sono mutati nel corso degli anni, altri che sono rimasti ma sono stati investiti di significati affatto nuovi, altri ancora che hanno sostituito, ampliato, differenziato la loro complessa catena di rimandi ed implicazioni: tutto ciò contribuisce a rendere oltremodo pericoloso e fallace il cammino di chi voglia approfondire uno o più aspetti cercando di ricollocarli idealmente nella loro cornice originale. La stessa sopravvivenza o maggiore importanza assunta in momenti successivi da determinati contesti rispetto ad altri ugualmente importanti all’epoca presa in esame è soggetta talora a leggi difficilmente rintracciabili e segnate da una certa casualità. È così che determinati fenomeni ed eventi culturali assumono sfaccettature diverse agli occhi di chi li voglia osservare se ricollegati a diverse correnti, procedimento in cui alligna sempre il rischio del travisamento semplicemente nell’attribuire più importanza ad un collegamento rispetto ad altri. Sarà dunque un impegno costante di questo lavoro – che è incentrato su un ambiente in certo qual modo marginale rispetto alle grandi correnti culturali che hanno attraversato il tormentato passaggio fra i secoli XIX e XX, e che perciò stesso è più delicatamente di altri esposto ad influenze eterogenee ma nel contempo meno ricco di documentazione diretta – l’attenzione alla delicata alchimia delle suggestioni molteplici da cui detto ambiente è stato ed è costantemente forgiato. Una delle componenti fondamentali da tener presente al fine di ben comprendere l’anima più autentica della produzione letteraria, musicale, figurativa, e per estensione anche dell’impegno ideologico e scientifico, di tutto ciò che insomma è maturato nei salotti trentini nel cui ambito si sono mossi gli autori da noi presi in esame insieme a tanti altri loro coevi, solidali od occasionali, è sicuramente la demarcazione, allora molto meno netta che ai giorni nostri, fra professionismo e pratica dilettantistica. L’eterogeneità di interessi che costituisce tratto distintivo di personaggi come Giulia Turco e il marito Raffaello Lazzari non verrebbe letta nella giusta luce se non fosse commisurata alla forte componente morale che la contraddistingue. Era tratto di una società che permetteva ancora a borghesia e nobiltà dell’epoca di crogiolarsi in una forma di impegno “a metà”, rispondente più ad un’ottemperanza all’etica cristiana di ora et labora che non inserita nel rigido ed implacabile meccanismo produttivo che sarebbe presto divenuto tratto informatore della società occidentale. In un’epoca in cui persino la Regina d’Inghilterra deve ormai rendere conto alla pubblica opinione (ed alle pubbliche finanze) delle spese sostenute per mantenere i suoi beniamini di razza canina risulta certo sempre più difficile e lontano il concetto che sta alla base dell’impegno di una parte neppure tanto ristretta della società di appena un secolo fa per cui il lavoro era un obbligo morale prima ancora che una necessità di bilancio. E’ dunque nella dimensione semi-dilettantistica che trovano ragione di essere caratteristiche salienti dei personaggi oggetto della nostra indagine quali l’estremo sincretismo di diverse pratiche ed arti; ed è nella cornice ideale del salotto che le loro opere trovano motivi ispiratori e ragioni di essere. Ma resta una importante precisazione da fare in merito alla citata eterogeneità di interessi: essa è ben diversa dall’aspirazione di sapere universale che contraddistingueva in epoche passate – medioevo e soprattutto rinascimento – le numerose ed esemplari figure di uomini di cultura. La congiunzione di tali e tante istanze diverse non è più ideale specchio e ricreazione di una superna armonia da cui tutte le manifestazioni del sensibile traggono comune origine ed a cui è compito dello studioso mettere in luce il nesso che le riconduce. La fede in una completa rispondenza fra microcosmi e macrocosmo ha lasciato il posto ad un accostamento di discipline eterogenee che pure mantengono la loro individualità, la musurgia universalis ad un florilegio di diversi settori soggetto al libero arbitrio e perciò stesso già pervaso della visione funzionale che sta ormai prendendo inevitabilmente piede alla fine del secolo XIX. Di questa prospettiva è ben chiara la coscienza nei personaggi della nostra “storia”, al punto che si vedrà in seguito la estrema vicinanza – soprattutto da parte di Giulia Turco Lazzari e nella fattispecie nei motivi ispiratori del di lei più maturo romanzo, Gabriele Iva – alla corrente del Modernismo (che, guarda caso, toccò come vedremo più avanti il suo massimo momento di virulenza in occasione di un convegno segreto nel 1907 proprio in Trentino, a Molveno). Ma non è solo la Turco Lazzari a dimostrare con la sua ultima fatica letteraria una prossimità all’area ideologica cattolico-liberale intorno a cui gravitano anche le istanze del Modernismo filosofico. Una fitta rete di corrispondenze e contingenze lega infatti da un lato la maturazione morale del Fogazzaro – che delle teorie moderniste fu colui che maggiormente portò il segno nell’impegno artistico – al pensiero del roveretano Antonio Rosmini, che degli Anzoletti fu zio materno. La stessa Luisa Anzoletti fu d’altra parte in contatto diretto con lo scrittore per molti anni, e per via di impegno civile e politico nell’ambito del movimento femminile cristiano, e per la mediazione del contatto con Antonietta Giacomelli, vicentina anch’ella, che le fu valido mentore nei primi anni della carriera letteraria. Di ciò è testimonianza anche una ininterrotta corrispondenza fra la Anzoletti ed il Fogazzaro. Non da ultimo, uno zio paterno dello scrittore veneto fu violinista, musicista di una certa fama, sposò ia Turco, luogo di ritrovo privilegiato in terra trentina per una larga fetta di intellighenzia Vedremo di delineare tutte queste relazioni significative in maniera più approfondita nel corso della nostra indagine. Premeva qui però citarle a titolo esemplificativo per sottolineare quanto la corretta individuazione ed il puntuale posizionamento di tutti questi stimoli siano indispensabili per restituire una immagine a tutto tondo delle storie individuali dei quattro artisti. Il problema della contestualizzazione va però a toccare anche campi che potrebbero a tutta prima sembrare non rilevanti per disegnare un percorso di studio. Non sono solo le prossimità geografiche, o quelle ideologiche, teoretiche, morali fra esponenti diversi del mondo culturale coevo ad identificare l’habitat di un artista (o, prima ancora, di un pensatore, giacché l’attività artistica di questi nostri soggetti è prima di tutto parto diretto e rivendicato della loro attività di pensiero e del loro universo di fede): ci sono infatti anche parecchi settori dell’universo cognitivo che interagiscono tra loro in maniera diversamente codificata in epoche diverse. La storia dell’organizzazione professionale delle attività creative è infatti complessa e soggetta a mutamenti sensibili parallelamente all’evolversi della società occidentale nel corso dei secoli. È fondamentale aver presenti, per quanto possibile, le dinamiche mutevoli che ne condizionano i rapporti per poter toccare con mano la prossimità che lega i diversi campi in cui si esprimono i lavori dei personaggi della nostra storia, così come, forse in maniera anche più urgente, per saper tratteggiare la profondità e la mutevolezza che nei loro lavori stessi collega istanze diverse. Citazioni musicali, scientifiche, pittoriche calate nell’ambito letterario, così frequenti nell’opera di Giulia Turco, suggestioni poetiche di cui trasudano le composizioni per il teatro del marito Raffaello Lazzari, il connubio inscindibile che lega i lavori di Marco Anzoletti ai testi scritti dalla sorella Luisa, il filo che unisce la prosa, ancora, di Giulia Turco alle immagini pittoriche dell’amico di famiglia e mentore Eugenio Prati e del nipote Bartolomeo Bezzi e l’attività di pittore di questi a quella parallela di Raffaello Lazzari e di seguito le dinamiche con cui l’esperienza del pittore Lazzari si cala trascolorandosi nella sua creatività nel campo musicale… tutte queste istanze devono essere storicizzate e lette nella giusta luce per restituire a noi studiosi la valenza che hanno assunto per questi autori e per il loro pubblico, reale o ideale, al momento della creazione dei loro lavori. Differenziando a volte in maniera anche assai netta diversi ambiti artistici, la storia li associa, li divide, li avvicina, allontana, mescola, separa, interseca assoggettandoli a leggi di volta in volta sempre diverse, in una specie di interminabile simbolica danza. Così noi vediamo originare parole e musica da un medesimo crogiuolo, legato intimamente all’universo religioso; le vediamo procedere poi appaiate finché rimangono prerogativa della sfera ierocratica, parole magiche che dischiudono all’uomo la conquista del potere sui fenomeni del mondo circostante determinandone il confine cognitivo, che sanciscono l’identità del nominare col possedere, che veicolano la ύβρις dell’antropizzazione del “Verbo” che “Era in Principio”; parole sacre in cui significante e significato, suono e deittica, modulazione della matericità vocale ed enunciazione del codice comunicativo ancora coincidono. Parola e musica giungono a separarsi in maniera graduale e parallelamente all’apertura della prima al mondo profano. Riempita la parola dell’impegnativo compito di comunicare, ecco avviata in maniera irrevocabile la prima differenziazione delle sue funzioni da quelle della musica. L’equilibrio fra suono e vocabolo – quel segnale che si “lancia con la voce” – nella nuova prospettiva di utilizzo utilitaristico si spezza allora drasticamente a favore di quest’ultimo, fattosi veicolo più agile e duttile di un codice comunicativo spogliato di valenze magiche. La modulazione del fenomeno acustico, sia esso liberazione del fiato interiore o rumore causato dall’incontenibile prorompere alla superficie cognitiva dell’intima essenza sonora dei corpi – corpi umani, animali, vegetali e minerali – si trova delegata a dover assolvere autonomamente il compito di rappresentare ciò che è di nuovo ineffabile, giacché la parola si è piegata all’uso quotidiano, profano. La musica rimane sola a costituire il tramite per l’estasi sciamanica, la custode fedele della porta del paradiso di cui, evocandola, è possibile godere la momentanea visione, affiancata ormai solo dall’urlo o dalla fonolalia, dalla modulazione della voce svuotata di ogni riferimento alla realtà e riempita di un parossismo autoreferenziale. Il recupero di una nuova dimensione di sacralità della parola avverrà in seguito con l’avvento della scrittura, in una rinnovata tensione, che è anche sociale, che la ricongiunge all’ambito privilegiato di una elite. La scrittura rimarrà poi per secoli prerogativa di una ristretta cerchia di iniziati, conferendo loro il grande potere di proiettare la parola al di là dell’immanenza della sua enunciazione lanciando un ponte verso l’eterno: è davvero interessante ricordare che la stragrande maggioranza dei documenti attraverso cui noi tentiamo di rileggere gli avvenimenti che hanno segnato il progresso evolutivo della nostra società a datare dall’avvento dell’uso della scrittura è filtrata dall’interpretazione personale di pochi e quei pochi sono altresì legati fra di loro dall’appartenenza ad una sfera abbastanza omologa della società. Regnanti, principi, nobili, cavalieri, coloro i quali hanno imposto con la forza del loro potere i cambiamenti al corso della storia delle popolazioni a loro assoggettate, e d’altro canto anche contadini, masse, popolo, che costituivano la stragrande maggioranza numerica delle genti: per tutti costoro l’uso della scrittura, salvo rare eccezioni, era precluso o rivestiva ben scarso interesse. Se queste due frange estreme della società erano dunque quelle che fruivano quasi in toto dell’immanenza storica, in virtù del loro schiacciante peso qualitativo e quantitativo rispettivamente, erano però delle minoranze, fatte di clero, di scrivani, di commercianti in pochi casi, di quasi emarginati e disadattati quando provenienti dalle classi superiori, quelle cui spettavano a conti fatti l’onore e l’onere di tramandare ai posteri memoria degli avvenimenti di cui erano spettatori. In tale recupero di ieraticità conferitole dalla scrittura, la parola si riavvicina alla musica: la parola sacra è canto sacro. Questa equivalenza intima e magica non abbandonerà mai l’immaginario collettivo e sarà sempre, come un filo sotterraneo, pronta a risvegliare rispondenze ed analogie all’insorgere di ogni sensibile mutamento nelle funzioni sociali globali del linguaggio e della comunicazione. Sarebbe troppo lungo ora fare una panoramica completa che voglia comprendere tutta l’evoluzione storico-sociologica parallela del binomio parole – musica, pur avendo noi tale evoluzione a questo binomio deliberatamente circoscritta: basterà quindi ricordare come il cammino di crescita della espressione musicale la veda procedere costantemente appaiata al linguaggio verbale – un linguaggio verbale ovviamente sempre distillato e riempito di senso “altro”, simbolico e polireferenziale piuttosto che ridondante e comunicativamente univoco come quello d’uso comune; insomma, in altre parole, un linguaggio “poetico” – appaiata ad esso in un rapporto sempre cangiante ed instabile, ora conflittuale, ora simbiotico. Basta riandare con la memoria alle ricorrenti esplosioni di polemiche legate alla priorità dell’una piuttosto che dell’altro, a partire dalle platoniche pubbliche condanne all’uso di certe espressioni musicali “degenerate”, bollate come diseducative e socialmente pericolose – trattate quindi alla stregua di un vero e proprio linguaggio comunicativo – per arrivare fino alle tormentate domande che non trovano una vera risposta su cui ancora pochi decenni or sono si ferma a riflettere un maturo Strauss insieme ad Hugo von Hoffmanstahl nell’opera Capriccio, passando attraverso le varie “riforme”, “pre-” e “pro-scrizioni” degli stili teatrali o della musica sacra (camerata de’Bardi, raccolte luterane di corali, dettami del – per noi tanto ricorrente! – Concilio Tridentino, drastiche riforme di stile propugnate a spada tratta da letterati e musicisti con frequenza quasi periodica) per capire quanto il legame fra espressione letteraria ed espressione musicale sia sempre stato e tuttora rimanga intimo ed aggrovigliato. Si tratta sempre di polemiche intessute, pur nell’infinità di sfaccettature che rivelano e nella molteplicità di aspetti che coinvolgono, sulla stessa tematica di fondo: espressione verbale ed espressione musicale hanno origini troppo ravvicinate ed appartengono ad un ambito espressivo-comunicativo troppo coincidente per non essere continuamente messe in discussione nel rapporto che le lega, rapporto che, in fin dei conti, può essere solo dinamico e continuamente ridisegnato, partecipe ed artefice di un’evoluzione comune. Tracciare una panoramica completa dell’evoluzione storico-sociologica parallela del binomio parole – musica sarebbe, dicevamo, un compito troppo lungo e non pertinente all’argomento di cui ci occupiamo; era tuttavia oltremodo importante porre l’accento sulle istanze di cui originariamente i due aspetti della manifestazione artistica si colorano per cogliere delle categorie di base che rimangono poi quali aspetti fondamentali su cui si sviluppa il complesso universo culturale e cognitivo dei nostri personaggi. Tutti i punti di contatto che si attivano continuamente fra questi e gli altri ambiti artistici nelle opere di Luisa, Marco Anzoletti, Giulia, Raffaello Lazzari e tanti altri a loro vicini rispondono più ad una logica di simbiosi che non ad un riduttivo complesso di citazioni. Simbiosi frutto di una formazione culturale a tutto campo che, come si è già detto, riesce, nel rifiuto di una specificità professionale cui le generazioni successive verranno progressivamente ed irrimediabilmente forzate, ad armonizzare i diversi settori dello scibile in una sorta di sereno compendio cui fine ultimo rimane, più ancora che l’utile finalizzato ad un continuo ed inarrestabile generale e generico progresso, il piacere autoreferenziale, l’equilibrio cosmico in cui bello ed utile, impegno e diletto, azione e contemplazione si cortocircuitano e magicamente coincidono. Siamo di fronte alla più alta e vera definizione del “dilettantismo”, come ci si può ancora permettere di esprimere ed elevare in un’epoca immediatamente a ridosso di quel radicale mutamento della prospettiva di utilizzo del tempo che finirà ben presto per bollarlo come un gioco inutile e superficiale. Ed un altro fondamentale aspetto di tale mentalità dilettantistica, che dimensiona l’universo esperienziale a tutto campo, sarà – e lo seguiremo più approfonditamente nel corso dell’indagine particolareggiata delle vicende che ci interessano – l’aspetto tutto particolare che impegno sociale e politico vengono ad assumere. Anche in questo caso sarà di fondamentale importanza rileggere la portata di tale impegno con un taglio di luce particolare, per non cadere preda di facili tentazioni alla generalizzazione ed al conseguente svilimento di quelli che furono invece spesso atti di coraggiosa rottura e scomode espressioni di radicale e profondo spirito critico nei confronti della società dell’epoca. Ci si riferisce qui in particolare, ovviamente, all’attività a sfondo umanitario ed alle idee che permeano l’opera letteraria delle due protagoniste femminili più che non a quanto possa trasparire esplicitamente e risultare concretamente leggibile dai lavori e dall’attività concreta di Marco Anzoletti e di Raffaello Lazzari. Ma non bisogna dimenticare che da un lato il linguaggio musicale attraverso il quale i detti veicolano il loro universo espressivo rimane sempre molto più criptico e chiuso ad esplicite manifestazioni di impegno, e d’altro canto è la stessa organizzazione della famiglia e della società in cui essi vivono che demanda alla donna il compito primario di relazionare il nucleo familiare con il mondo esterno in campo sociale, mettendola perciò in condizione di farsi portavoce e di agire in nome e per conto della stessa componente maschile. Sarà dunque il compito di questo nostro lavoro, al di là di raccogliere materiale documentale ancora sparso sui quattro personaggi da noi prescelti, il tentare di cogliere per ciascuno le modalità di relazionarsi con tutte le istanze che attraversano la loro epoca, delineando per ogni figura un quadro biografico ma anche psicologico. Avremo così acquisito, alla fine del nostro viaggio conoscitivo, non solo una visione del riflesso dei mutamenti della società in atto nella loro storia individuale, non solo un ritratto di elementi umani di rilievo ancora passibile di approfondimento nella storia della società di una regione di confine tanto esposta ad influssi culturali differenziati, ma anche e soprattutto un valido supporto ed una nuova testimonianza per verificare, attraverso il variegato rapportarsi di quattro differenti personalità alle stesse problematiche politiche, etiche, sociali, esistenziali, l’effettiva vastità ed incidenza di tutte quelle inquietudini che attraversano il mondo in rapido mutamento del nuovo secolo che si sta schiudendo davanti a loro. 2. INQUADRAMENTO STORICO-CULTURALE: CULTURA ITALIANA E CULTURA MITTELEUROPEA A TRENTO Breve ricapitolazione delle vicende storico-politiche e culturali nei secoli antecedenti: dall’assetto del principato medioevale sino all’epopea Risorgimentale. L’irredentismo Il modernismo Rendere ragione della totalità di istanze e fremiti culturali che attraversano la società trentina alla fine del XIX secolo è, come si è gia detto, impresa impossibile ad affrontarsi in questa sede. Non si può tuttavia non prendere in esame almeno i due importantissimi fenomeni che influenzano l’intera storia politica e sociale dell’epoca, cioè il cosiddetto irredentismo in campo politico e la nascita, lo sviluppo e la valenza rivoluzionaria (e perciò stesso da subito ostracizzata e fatta oggetto di pressanti espressioni di condanna ufficiale) che proprio in seno alla terra tridentina, vede la sua investitura ufficiale al congresso di Molveno del 1907, della corrente religioso-filosofica del pensiero modernista. Di entrambi i fenomeni non si cercherà di dare una trattazione esaustiva, per la quale si rimanda alle ampie disamine già presenti in letteratura e citate nella bibliografia, ma si tenterà solamente di individuare quegli aspetti che più di tutti abbiano di fatto influito sul vivere collettivo della società del tempo e più segnatamente sul pensiero dei componenti quella parte della società che è oggetto del nostro lavoro di indagine. 2.1. Breve ricapitolazione storica; nascita e sviluppo del pensiero irredentista. Sebbene la storia delle dominazioni e delle rivoluzioni sociali che interessano la zona del sud del Tirolo abbia una grande rilevanza nel formare il substrato del pensiero comune delle popolazioni trentine anche per tutti i secoli a venire, fino a comprendere i giorni nostri, dobbiamo per ovvi motivi delimitare il campo di osservazione, e trovare un inizio simbolico che può coincidere con l’avvento al trono asburgico, il 2 dicembre 1848, dell’allora giovane Francesco Giuseppe e con l’inizio della sua lunga reggenza. Servirà però un breve excursus storico dei secoli precedenti per ricordare come il Tirolo fosse stato per secoli soggetto ad un fortissimo principato vescovile, e come esso fosse stato un ganglio vitale per il potere del dominio temporale ecclesiastico al punto da ospitare alla metà del 1500 il Concilio ecumenico che determinò la definitiva separazione fra chiesa Cattolica e Protestante. Il conferimento iniziale del potere temporale ai Vescovi di Trento e Bressanone fu frutto della situazione di crisi in cui le strutture istituzionali pubbliche dell’Impero di Sassonia e di Franconia versavano agli inizi del secondo millennio: da un lato esso ebbe l’effetto di arginare il predominio che le grandi famiglie laiche venivano gradatamente ad assumere, dall’altro fu indotto dalla necessità di deferire il comando a referenti il più possibile vicini ai larghi strati della popolazione di religione cristiana. La concessione da parte imperiale data dal 9 aprile 1004; la successiva investitura ufficiale a Conte, il cui diploma esiste tuttora, che l’imperatore Corrado II fece il 31 maggio del 1027 al Vescovo di Trento comportava poteri di notevole ampiezza; essa contemplava l’esercizio di tutte le funzioni pubbliche, giudiziarie e tributarie, e poneva il Vescovo-Conte alle dirette dipendenze dell’Imperatore. I poteri deferiti al Vescovo crebbero ancora successivamente, includendo lo sfruttamento delle miniere, la supremazia sugli uomini liberi, i diritti di comandare il mercato, esercitare dazi, battere moneta, investire vassalli, e dai primi anni del XIII secolo il titolo di Principe iniziò ad apparire a fianco di quello di Vescovo. Tutto ciò era giustificato anche dalla grande importanza strategica che l’episcopato di Trento rivestiva nel panorama europeo, ed i vescovi trentini dei primi secoli del nuovo millennio furono sempre legati in prima persona alle campagne militari di conquista imperiali. Questo clima di stretta collaborazione durò fino al 1236, quando, con una brusca svolta, Federico II pose a Trento e a Bressanone due podestà imperiali, di fatto esautorando i Vescovi di ogni potere civile; da questo momento il vescovado trentino attraversò un lungo periodo contrassegnato da alterne vicende di alleanze e di contrasti, e vide anche la costituzione di una effimera Repubblica tridentina a seguito di una rivolta dei cittadini guidati da Rodolfo Belenzani nel 1407. Solo dagli inizi del ‘500 il Principato Vescovile fu di nuovo in grado di rinverdire gli antichi fasti, aiutato in ciò anche da un diverso corso inaugurato dalla politica delle investiture imperiali – che lo poneva di nuovo al passo con i tempi, ormai attraversati da ventate di idee nuove alimentate sì dalle inquietudini urbane che serpeggiavano un po’ in tutta l’Europa occidentale sfociando spesso in violente rivolte contro il potere costituito, ma propugnate anche dalla rivoluzione religiosa messa in atto da Lutero. Attraverso le nuove investiture si vollero infatti sostituire ai Vescovi tedeschi, che per oltre due secoli avevano retto le sorti politiche, Vescovi di origini locali e di lingua italiana. Si pervenne così al periodo segnato dalle reggenze di Bernardo da Cles, o Clesio, celebrato come il più grande fra i Vescovi trentini, ed in successione quasi diretta di Cristoforo Madruzzo, sotto la cui reggenza si tenne il citato importantissimo Concilio ecumenico. Entrambi i Principi-Vescovi furono figure di statura europea ed entrambi rimasero al potere per circa un ventennio (dal 1514 al 1539 il Clesio e dal 1545 al 1563 il Madruzzo). Per oltre un secolo, a seguire, detennero il potere membri successori della famiglia Madruzzo, in ossequio a quella curiosa tendenza comune all’epoca anche ai papi di Roma per cui il principio dell’ereditarietà al potere sembrava non essere scalfito nel suo valore neppure nel caso di regnanti evidentemente votati al celibato. Sebbene anche in terra trentina il tardo ‘600 e tutto il ‘700 vedano circolare le idee di rinnovamento, i germi di sentimento nazionalista, l’anelito a riforme fondamentali nella struttura amministrativa ed in quella sociale, con i portati delle ideologie rivoluzionarie e massoniche che prepareranno il terreno per le aspirazioni risorgimentali in tutta Europa, il Principato Vescovile resisterà ancora sino al 1803, quando con la pace di Luneville l’Austria aggrega la regione al Tirolo. Personaggi di rilievo, sia a livello locale che di caratura internazionale, contribuiscono in questo periodo a porre il seme perché le idee di cui si è parlato si sviluppino e si diffondano soprattutto negli ambienti medio ed alto-borghesi (ed il Risorgimento, giova ricordare, non è affatto una rivoluzione “popolare”). Se da un lato infatti uomini come Clementino Vannetti (1754-1795) di Rovereto, il quale «impersonò il risveglio nazionale del Paese ne sostenne l’italianità contro confusionismi geografici e politici» o Carlo Antonio Pilati (1733-1833) che fu «nemico dei pregiudizi e del feudalesimo, cercò di diffondere i criteri delle riforme nel suo paese e protesse i deboli contro gli abusi dell’autorità» contribuirono certo in maniera rilevante dall’interno al recepimento di istanze sociali innovative, dall’altro personaggi di grande rilievo e nomea, pensatori, filosofi, massoni, come Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro, Johann Wolfgang von Goethe, il barone de Bassus, a seguito di legami effimeri o duraturi instaurati con la terra e con le genti trentine, fecondarono in maniera diretta con il loro apporto esperienziale quei settori della società trentina con cui vennero a contatto. Dall’annessione alla regione austriaca del Tirolo sancito dalla pace di Luneville fino al rinnovarsi della medesima ad opera del congresso di Vienna del 1815 il territorio trentino vive due brevi parentesi in cui viene prima accorpato al Regno di Baviera dal 1806 al 1809, ed in seguito, dal 1810 al 1813, diviene parte del Regno Italico ad amministrazione francese. E, parentesi nella parentesi, la brevissima quanto sfortunata rivolta popolare guidata da Andreas Hofer per inseguire un sogno di indipendenza di stampo pantirolese servirà da modello per infinite e variegate riletture e strumentalizzazioni fino ai giorni nostri. I possedimenti in Italia della casa imperiale di Vienna rispecchiano dunque sostanzialmente, al momento dell’avvento al trono di Francesco Giuseppe, l’equilibrio che il congresso di Vienna del 1815 aveva ristabilito, ivi compresi i «Principati di Bressanone e di Trento». Già l’anno successivo, con la sconfitta inferta ai Savoia e la repressione delle resistenze in atto nel Veneto, lo stato di dominio viene peraltro ulteriormente rafforzato. Ma da quel momento inizia un cammino di progressiva ed inesorabile crescita della coscienza unitaria nazionale, che porterà, attraverso i moti risorgimentali, alla graduale riunificazione italiana. La sensibilità al portato culturale del concetto di “unità nazionale” è tuttavia molto diversa da una realtà locale all’altra. Regioni come la Lombardia ed il Veneto – significativamente le prime a scrollarsi di dosso il giogo della dominazione Austriaca, rispettivamente nel 1856 e nel 1866 – vivono la liberazione dal dominio straniero come la naturale conseguenza delle connaturate aspirazioni indipendentistiche e libertarie che si innestano sulla loro tradizione storica in maniera del tutto naturale al punto da opporre una certa resistenza anche alla successiva annessione al “liberatore” regno sabaudo. Altre, leggasi il Trentino ed il Friuli, le terre “irredente” sino al 1918, hanno invece dietro le spalle una tradizione ben diversa, di continue e secolari relazioni con i paesi di lingua germanica di cui hanno gradualmente assimilato la cultura fino a creare una situazione di reale convivenza e di consuetudine di interazione piuttosto che di sudditanza da un dominio straniero. Tale fluidità di relazioni si accentua ulteriormente nel corso della seconda metà del secolo XIX; come giustamente rileva U. Corsini: La Monarchia asburgica non poté fare a meno di riconoscere e rispettare le autonomie storiche regionali nei Länder abitati da popolazioni sia di lingua tedesca che di diverse nazionalità. È vero che, specialmente nei secondi, poteri e materie dell’autonomia fossero ritenuti insufficienti e che si tentò di allargarli e moltiplicarli per dare all’autonomia stessa un significato ed un contenuto nazionale. Ma è altrettanto vero che le Diete dei Länder ebbero a svolgere la funzione di cerniera tra le popolazioni locali e l’Impero, e diedero alle popolazioni stesse la coscienza di poter partecipare in qualche modo al governo della cosa pubblica. A tutto ciò bisogna infine aggiungere che, già da prima del 1848, in maniera comunque sancita ufficialmente e definitivamente dall’articolo 19 della legge fondamentale dell’Impero del 21 dicembre 1867 (in base a cui: «Lo Stato riconosce la parità di diritti in scuole, uffici e vita pubblica di tutte le lingue comunemente parlate in una data regione»), il concorso di membri delle comunità locali agli apparati burocratici, militari, organizzativi, amministrativi fu massiccio e costante, incoraggiando così una situazione di cooperazione e di cointeressenza, almeno da parte dello strato sociale burocratico-impiegatizio, alla gestione della cosa pubblica. Anche negli organi di polizia, elemento chiave per la gestione delle masse popolari sia in termini di tutela che di repressione, la collaborazione di impiegati di etnia italiana fu cosa normale ed ampiamente incoraggiata. Su un clima dunque di ufficiale apertura verso le esigenze di identità dell’etnia italiana da parte del potere imperiale, l’istanza irredentista che inizia a delinearsi in maniera sensibile verso gli anni ‘70 non può non innestarsi in maniera multiforme, spesso contraddittoria, di difficile decifrazione. Se già era stato oggetto di accesa discussione e di difficile accettazione per Veneto e Lombardia, negli anni immediatamente precedenti, essere liberati da un dominio straniero per ritrovarsi comunque soggetti ad un potere sovranazionale e quindi non indipendenti, la situazione si veniva vieppiù complicando nel caso di Trento e Trieste in virtù del legame molto più stretto che la prossimità geografica, economica e culturale aveva creato con le popolazioni Austro-Ungariche. A testimonianza, ancora, del carattere così spesso ancipite e contraddittorio delle relazioni fra etnie italiana e tedesca, l’intero secolo XIX – ma anche il successivo! – è attraversato da una ricca quanto significativa aneddotica a fuoco incrociato su tutti i fronti: da un lato un giovane giornalista a nome Benito Mussolini scrive nel 1911 (Il Trentino visto da un socialista) che «nei ricreatori cattolici si cantava e forse si canta ancora: “Colla pell de Garibaldi ne farem tanti tamburi Tirolesi ste sicuri Garibaldi no ven più” », ma per contro, proprio negli stessi anni e negli stessi luoghi è attivissima la Lega Nazionale proprio con lo scopo di contrastare le intemperanze di associazioni estremiste filogermaniche come il Tiroler Volksbund che nasce a Vipiteno il 7 maggio 1905 o di bloccare i tentativi di “intedescare” la regione utilizzando solidi aiuti finanziari provenienti dalla Germania per espandere gradualmente la cultura tedesca penetrando dalle valli di confine. La stessa nascita ufficiale del movimento irredentista va considerata attentamente per non cadere preda di fuorvianti semplificazioni, giacché essa avviene non in territorio occupato come sarebbe logico pensare, ma a Napoli, dunque in pieno territorio italico, ad opera di Matteo Imbriani, che ivi costituisce la “Associazione in pro dell’Italia Irredenta”. L’associazione si delinea quindi da subito come intesa più a smuovere il governo nazionale ed a veicolare forme di protesta politica interna che non ad indirizzare le proprie pressioni sui governi stranieri; innestando così una forma di opposizione al governo che, prendendo le mosse dalla politica estera (con le critiche rivolte alla classe che detiene il potere per il suo scarso impegno nel programma di rivendicazione del Trentino e delle province adriatiche dettato dal timore che l’internazionalizzarsi della questione romana o l’incrinarsi del precario equilibrio europeo potessero mettere a repentaglio i risultati già conseguiti in quella direzione) si riversava su quella interna fino a metterne in crisi le stesse forme istituzionali. In aggiunta a ciò bisogna naturalmente ricordare che le istanze irredentiste assumono sfaccettature differenti fra le due diverse aree trentina ed adriatica, nonostante l’immaginario collettivo nazionale, già da quel preciso momento storico e fino ai giorni nostri, le venga ad identificare, con il binomio Trento-Trieste in maniera indiscriminata. L’irredentismo dell’area adriatica si manifesta invece per molti versi diversificato rispetto a quello tridentino; basterà qui ricordare due aspetti a titolo esemplificativo. In prima istanza, la zona adriatico-istriana ospitava tre grandi etnie: quella italiana, quella austro-ungarica e quella slava; la conflittualità non si poteva quindi risolvere in un rapporto a due come in terra trentina, dove anche il caso del ceppo linguistico ladino, che pure rimaneva una minoranza, fu solamente sfruttato in certe occasioni dall’autorità Imperiale proprio per cercare di indebolire le rivendicazioni delle popolazioni di lingua italiana. In secondo luogo, mentre il territorio di Trieste dipendeva giuridicamente da Vienna in maniera diretta, l’intera regione del Tirolo fu accorpata sotto la giurisdizione di Innsbruck, originando così diversi referenti – e perciò stesso diverse modalità di rivendicazione – per le istanze indipendentiste delle due aree. La complessità della situazione trentina è, di nuovo, molto ben descritta dal Corsini: Posta fuori discussione la coscienza certa, vigile e attenta della propria nazionalità italiana, conservata spontaneamente non solo dalle classi colte ma anche da tutto il popolo, il problema che si poneva ai Trentini e agli Adriatici dalla seconda metà del XIX secolo in poi era triplice: un primo, generale e comune a tutte le genti europee, riguardava la trasformazione delle strutture dello Stato e della società in senso liberale; un secondo, proprio di tutte le minoranze, la difesa della propria nazionalità all’interno dello Stato eteronazionale; un terzo, caratteristico dei gruppi minoritari che non possono aspirare ad erigersi a Stato indipendente, relativo all’annessione allo Stato unitario nazionale confinante. In ordine al primo problema si deve riconoscere che la prevalenza nel Trentino e nel Friuli orientale delle correnti politiche conservatrici di osservanza Cattolica, ad eccezione di una élite minoritaria di borghesia intellettuale ed economica, rallentò l’avvicinamento alle istanze progressiste. La situazione di Trieste fu invece sempre diversa, prevalendo ivi la presenza liberal-nazionale e poi liberale e socialista. Quella minoranza liberale ebbe tuttavia la possibilità di svolgere la sua funzione sino a che le riforme elettorali del 1896 e del 1907, in conseguenza dell’estensione del diritto di voto e quindi dell’ adozione del suffragio universale, non assottigliarono la schiera dei deputati liberali in Parlamento e nelle Diete regionali a favore dei cattolici ed aprendo le porte ai socialisti. In ordine al secondo punto l’atteggiamento delle popolazioni italiane di ogni ceto fu omogeneo e costante, anche se si serviva di strumenti diversi, preferendo a volte condurre la lotta di difesa nelle Diete, a volte in Parlamento, sostenendo le istituzioni autonome dove esse erano in maggioranza, o tentando invece di ottenere un’autonomia separata dove erano in minoranza, come ad esempio nel caso trentino in cui si opposero al Land del Tirolo. In ordine al terzo problema si deve fare una netta distinzione tra l’atteggiamento del popolo, specie rurale, e quello dei circoli intellettuali di orientamento liberal-nazionale. Era in particolare presso questi ultimi che maggiormente si sentivano i richiami spirituali al moto risorgimentale unitario italiano, che venivano coltivate aspirazioni al separatismo dall’Austria e all’annessione all’Italia. Ma ad una decisa conversione in questo senso si pervenne solo molto gradualmente ed alla fine del conflitto. È in un tal quadro, caratterizzato da convergenze di tutte le correnti politiche delle terre “irredente” riguardo alla questione nazionale e per contro da profonde divergenze nelle scelte politiche e sociali, che si inserisce l’azione dei partiti: quello nazional-liberale, che fu il primo a costituirsi formalmente già nel 1871, quello cattolico, che si appoggiava alle strutture ed al prestigio della Chiesa, e infine quello socialista. Dei tre, quello liberale era portatore delle aspirazioni unitarie italiane, quello cattolico – il più rappresentativo – mostrava maggior lealismo e cautela e riteneva suo principale dovere tutelare gli interessi economici specialmente dei ceti rurali; il partito socialista restava travagliato dai contrasti tra la sua opposizione alla Monarchia asburgica, autoritaria e imperialista, e il suo internazionalismo classista, che lo avvicinava alla socialdemocrazia austriaca favorevole sino all’ultimo non alla distruzione dello Stato plurinazionale, bensì alla sua trasformazione in uno Stato federativo secondo i deliberati del congresso di Brno. Si vede dunque da quanto fin qui considerato – e si vedrà ancora meglio in seguito, dopo aver raccolto e valutato documentazione su altri aspetti ugualmente fondamentali – come nella questione irredentista si vengano in effetti ad intrecciare una infinità di diverse sfumature sociologiche, politiche, culturali, che ne rendono ben difficile una definizione univoca da un lato, e ne arricchiscono dall’altro la portata storica con apporti di grande valore e di grande impatto su molteplici settori della società dell’epoca. Fra gli elementi che al pari delle istanze irredentiste illuminano il panorama culturale dell’epoca e con le stesse istanze interagiscono intimamente una posizione di grande rilievo viene ad occupare, come già accennato, il movimento filosofico-religioso cosiddetto “modernista”. È questo il secondo grande tema che ci preme affrontare per definire al meglio i confini e la sostanza del suddetto panorama culturale. Vale anche la pena di sottolineare qui (ma ritorneremo più diffusamente sull’argomento in sede di trattazione più specifica) come proprio la prossimità alle posizioni del pensiero modernista da parte della nostra Giulia Lazzari Turco ne abbia, con grande probabilità, ingiustamente offuscato la notorietà in vita e il ricordo presso i posteri. 2.2. Modernismo Si è già in parte accennato alla molteplicità di legami che hanno reso la terra trentina significativa per la nascita e per la breve stagione in cui il pensiero modernista si è venuto a delineare nelle discussioni e nei proclami dei suoi ideatori. Come già rilevato nel caso della scelta a suo tempo operata dal Cardinal Morone per il sito da destinarsi al Concilio ecumenico, ancora una volta il Trentino pare essere il luogo ideale, per la sua collocazione geografica, e non da ultimo per le caratteristiche insieme climatiche e paesaggistiche che ne fanno luogo tradizionalmente eletto di villeggiatura estiva. Molveno diviene così il luogo prescelto per la riunione, completamente informale, frutto di cauti inviti personali, lontana da qualsiasi investitura ufficiale, che cercò di far convergere finalmente le varie correnti che parallelamente avevano dato voce alle tante inquietudini suscitate dalla sempre crescente difficoltà di rapportare la fissità del dogma religioso con l’inarrestabile sviluppo delle scienze naturali, delle tecnologie, dell’evoluzione della società. Era la fine di agosto del 1907 e la località appartata, amena, in riva la lago, meta ormai abituale tanto del pionieristico escursionismo alpino quanto delle spedizioni scientifiche che destavano sempre maggiore interesse (erano «i tempi di Beppo Scoz, la guida che menava inglesi in assetto dall’Hotel Trento per i passi di Sant’Antonio alla Paganella e di San Giovanni a Molveno» ed i tempi in cui «Anche il botanico saliva col vascolo fra l’azzurro del cielo e quello delle genziane, fra il trollio dorato e il profumo delle nigritelle.») doveva apparire ideale luogo di ritrovo per quelle persone che univano l’accesa sensibilità per il mistico di tutti alla profonda sensibilità artistica di alcuni: essi non dovevano essere rimasti insensibili alla dea Bellezza delle Alpi, quando al mattino s’indora al primo raggio e tende a rimirarsi colle sue ancelle nello specchio ceruleo di Molveno, non si concede agli sguardi profani, e quelle pareti di Gaggia le fanno da paravento. Eppure quelle rupi, che ci precludono cotanto sguardo, oramai, a tanto vederle, ci piacciono come sono, così, alla Doré, il quale pare se ne sia ricordato nello schizzare i gironi infernali per la sua Divina Commedia. L’elemento che diede lo spunto all’idea del convegno fu probabilmente il fatto che il barone von Hügel, uno tra i più autorevoli esponenti stranieri del nuovo indirizzo, trascorreva in regione la sua villeggiatura estiva. Ma probabilmente è addirittura esagerato parlare di “convegno”, se non nel più puro senso etimologico di “ritrovo” restituendogli quella patina di estemporaneità e di informalità che doveva al momento sicuramente avere. A comprendere appieno lo spirito di questo convegno – ed eccoci qui di fronte ad uno dei già menzionati e temuti trabocchetti che le mutate contestualizzazioni di un semplice termine ci possono tendere! – ci viene fortunatamente in soccorso il raffronto e l’analogia con l’atmosfera del salotto di cui è permeata tanta parte della storia da noi indagata, cui già si è accennato e di cui si farà più diffuso parlare nel prossimo capitolo; salotto che riesce ad essere davvero il più fertile e versatile terreno di circolazione di idee dell’epoca. Ebbene il contesto del ritrovo di Molveno è certo quello di un autentico salotto all’aria aperta, pur nell’esplicita esigenza di segretezza, nella serietà del programma di discussione e nella scaletta dettagliata dei soggetti da trattare, e nonostante la tensione derivante dalla lucida coscienza premonitrice della guerra ideologica incombente che dalle convinzioni dei partecipanti sarebbe stata determinata. Questo sfondo inalienabile di informalità, che è bene noi teniamo sempre ben presente, traspare anche dalle testimonianze degli stessi convenuti o degli occasionali testimoni. Non esiste neppure una lista ufficiale dei nomi dei presenti e le varie fonti presentano qualche discordanza. Ovvia è la presenza del von Hügel, accertata quella di Fogazzaro, Buonaiuti, Casciola, Mari, Murri, Piastrelli – che rivendica la paternità dei primi inviti spediti per il convegno; ma Lorenzo Bedeschi sostiene che l’idea originaria sia di Fracassini, condivisa poi da Gallarati Scotti e Buonaiuti – Gallarati Scotti, Fracassini, Casati; si sa che Semeria e Antonietta Giacomelli declinano l’invito, alcune fonti danno per presente anche don Minocchi. Sebbene il ritrovo fosse stato accuratamente e lungamente progettato e il luogo fosse stato scelto scartando altre ipotesi iniziali come Venezia e Montecatini, tuttavia, come osserva anche Pietro Scoppola, «l’importanza della riunione è stata forse ingigantita dall’atmosfera di mistero che l’avvolse, sì da apparire una “assemblea modernista”, un piccolo concilio di riformatori, che ha tuttavia un notevole rilievo nella crisi modernista italiana proprio come indice di quella tendenza ad un avvicinamento e ad un’intesa delle varie correnti novatrici.» Questo passo non ci è solo utile per chiarire il carattere di informalità che aveva segnato la riunione, ma ci aiuta anche a puntualizzare un altro elemento importantissimo per tracciare la fisionomia del pensiero modernista e del suo sviluppo: l’estrema frammentarietà ed eterogeneità delle varie posizioni ideologiche rappresentate in quell’occasione. In effetti questa frammentarietà, unitamente al programma degli argomenti che avrebbero dovuto essere oggetto di discussione («smisurato e ambizioso per l’ampiezza degli argomenti – dalla critica della conoscenza. Al culto popolare a un piano pratico d’azione») fece sì che la chiusura dell’esperienza di Molveno non fruttasse ai suoi convenuti il raggiungimento di un’auspicata linea di azione e di ideologia comune. Essa esperienza fu invece il pretesto per il definitivo e netto misconoscimento da parte del cattolicesimo ufficiale che passò attraverso l’enciclica Pascendi Dominici gregis del settembre 1907, i decreti del S. Uffizio e la decisa presa di posizione avversa da parte dei due più autorevoli filosofi di area cattolica del tempo, Croce e Gentile. Le questioni da cui prende l’avvio la crisi modernista sono ben espresse nella cronaca che dell’esperienza dà Ernesto Buonaiuti nel Pellegrino di Roma: Non ci volle molto perché tutti ci si trovasse d’accordo nella impostazione dei quesiti da sottoporre alla nostra fraterna discussione e al nostro scambievole e confidente contatto ideale. Qual è la sostanza della predicazione neo-testamentaria? Che cosa hanno segnato e che cosa hanno rappresentato di nuovo e di definitivo la comparsa di Cristo e il risuonare della sua parola nel processo di sviluppo della tradizione profetica? Qual è il deposito che Cristo ha affidato al magistero ecclesiastico? Che cosa ha voluto essere, nell’esperienza della comunità cristiana primitiva, il rito dell’iniziazione battesimale e qual è stato il contenuto intimo della primitiva celebrazione eucaristica? Quale soggiacente logica e quale sostanziale dialettica hanno presieduto all’evoluzione dei dogmi? E quale può essere mai e come può tentarsi oggi la determinazione di un contenuto cristiano, armonizzato con le esigenze della cultura e della vita associata? Ma le risposte che ciascuno dei partecipanti cercava e presupponeva a tali quesiti erano e rimasero inconciliabilmente discordanti: lo stesso Fogazzaro «partendo da quel convegno si sentì più solo che mai. Perché una cosa gli era apparsa, come al von Hügel: che quella gente, inquieti cercatori di una via, era tutta prigioniera di schemi e di idee… sotto l’apparente cordialità si sentivano già le discordanze profonde. Era vicina ormai la dispersione» Difficile è rendere esaustivamente le posizioni di ognuno dei partecipanti, e per una conoscenza più approfondita rimandiamo senz’altro alle numerose trattazioni specifiche sull’argomento citate in bibliografia. Ci limiteremo qui a dare una rapida sintesi di quella che fu la posizione del Fogazzaro – quella, peraltro, su cui per ovvi motivi più diffusamente è stato scritto, anche dai contemporanei a partire dallo stesso Gallarati Scotti – poiché fu quella che maggiormente influenzò per motivi diversi le due scrittrici trentine a noi vicine. Da sottolineare è in particolare, nella posizione fogazzariana, lo sforzo costante per armonizzare scienza ed anima, spiritualismo ed influssi positivistici, fede ed evoluzionismo; Per un recente raffronto delle teorie di Sant’agostino e di Darwin circa la creazione (in Ascensioni umane, 1899) è un titolo di un Discorso del 1891 che dice già tutto. I momenti in cui queste due istanze vengono meglio armonizzate, come in Piccolo mondo antico (1895), sono in effetti anche i momenti di maggior valore creativo nella sua opera. Se dunque la sua formazione è già contrassegnata dalla frequentazione di modelli (in particolare il già citato Antonio Rosmini e lo zio sacerdote don Giuseppe Fogazzaro, che pare essere addirittura il modello cui lo scrittore si ispirò nel dipingere la figura di don Giuseppe Flores, il personaggio forse più riuscito di Piccolo mondo moderno) che accostano ad un profondo misticismo l’esigenza sentita di confrontarsi con le problematiche poste dalle prospettive evoluzionistiche, il suo cammino di ricerca successivo passa attraverso prossimità con le posizioni più avanzate ed estremiste dell’intero panorama cattolico dell’epoca. Così le opere dei padri dell’americanismo Spalding e Gibbons (da lui lette nella traduzione francese del padre Klein) si accostano agli studi esegetici di Loisy ed alle aperture al darwinismo del gesuita Tyrrell. E della prossimità di vedute fa fede anche, sul lato opposto, l’accoglienza calorosa tributata dagli stessi al romanzo Il Santo alla sua uscita. Anche la cifra di un costante cosmopolitismo, di una attenzione mai sopita alle inquietudini maturate anche in ambienti a lui lontani è dunque distintiva della posizione fogazzariana in seno al coacervo di opinioni diverse gettate sul tavolo della discussione e gli conferisce una luce di mediatore, di ricercatore instancabile e difficile al preconcetto che ben si attaglia alla fisionomia della sua presenza all’interno del gruppetto di visitatori di Molveno di quel lontano agosto 1907. A considerare gli esiti delle giornate di Molveno, quindi, si assiste ad un sostanziale scarto fra il “navigare a vista” deliberatamente e coscienziosamente adottato dai partecipanti al ritrovo di Molveno, che confluisce in un nulla di fatto in maniera triste ma tutto sommato esente da traumi, e la reazione estremamente secca, immediata ed inappellabile da parte degli organi ufficiali del cattolicesimo. Questa reazione ha come effetto non solo l’inibizione e la dispersione delle inquietudini moderniste almeno sul territorio italiano, tutto sommato già preconizzata ed insita nella stessa inconciliabilità delle diverse posizioni emersa chiaramente in seno alla riunione trentina del 1907, ma d’altro canto anche l’investire quella stessa riunione di un crisma di ufficialità che, come abbiamo appena visto, non rende giustizia del clima in cui essa al contrario si era svolta. Il rendere ragione del suo aspetto legato ad una non sopita atmosfera di discussione domestica sottolinea invece per noi una componente importantissima. Si tratta cioè di un aspetto che ci permette di accostare un momento di forte pregnanza ideologica e filosofica, all’interno del rinnovamento che ha interessato tutto il tormentato periodo degli inizi del secolo XIX, a quell’humus prezioso che nutre così larga parte della cultura del periodo stesso e che si propaga attraverso i ritrovi nei salotti, nelle residenze di villeggiatura, nel circoli culturali e non ancora propriamente politici o sociali – almeno nelle enunciazioni, salvo poi mostrarsi tali a pieno titolo nei fatti – e di cui si fanno portavoce non solo le grandi penne destinate ad assurgere a fama imperitura, ma anche e soprattutto quella ben più larga e rappresentativa cerchia di minori: scrittori, poeti, artisti a vario titolo, di cui i Turco – Lazzari e gli Anzoletti sono tipici rappresentanti. È questo un aspetto che la reazione abnorme da parte dello schieramento ufficiale del cattolicesimo ha pericolosamente adombrato. Vero è che la svolta intransigente della politica vaticana era già stata presentita dal Fogazzaro all’epoca della successione al soglio pontificio di Pio X. Se egli infatti aveva in più occasioni espresso la propria stima ed ammirazione per la figura del predecessore Leone XIII (soprattutto, pare, a seguito della decisione di aprire gli archivi vaticani agli studiosi e di quella di istituire la Commissione Biblica, «un omaggio solenne al diritto della scienza, una gloriosa professione di fede nell’infallibile accordo delle verità di ogni ordine. Era il principio, inavvertito dai più, di un grande, fatale avvenire, di un emergere mirabile della verità dalle strette mortali di cortecce deficienti, di una trasformazione lenta ma immensa nella intelligenza del dogma»), saluta al contrario con molta freddezza l’elezione di Pio X quale successore, declinando l’invito dei giornali ad esprimere la propria opinione e confidando agli amici: «Io ho sperato in un Papa che innalzasse il livello intellettuale della gerarchia ecclesiastica e avesse il senso dello spirito moderno; che nominasse cardinale Bonomelli o almeno Scalabrini, che favorisse gli uomini come

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